Se hai investito del denaro in debito in valuta locale dei mercati emergenti (EM) dopo il 2013, è molto improbabile che tu abbia conseguito un qualche guadagno negli 11 anni successivi, dato che il deprezzamento cui queste valute sono andate incontro si sarebbe mangiato gli interessi pattuiti. Ma anche se tu avessi investito in azioni avresti molto probabilmente sottoperformato di circa il 50% un indice “global equity”, e questo senza prendere in considerazione le perdite causate dal tasso di cambio.
Alla luce di questi dati, è evidente che i mercati emergenti presentano dei difetti, ma dallo studio dei fondamentali non emerge nessuna causa che giustifichi dei risultati tanto inferiori alle alternative. Ciò significa che l’eventuale colpevole deve essere cercato altrove e, secondo noi di Legal & General Investment Management (LGIM), il principale indiziato è il ciclo economico del dollaro. Infatti, a partire dal 2013, la Federal Reserve ha iniziato a rivedere la sua politica monetaria incentrata sul
quantitative easing, innescando così un processo di apprezzamento del dollaro che è durato fino ai giorni nostri.
Ma cosa c’entra l’andamento del dollaro con le performance dei mercati emergenti?
Per rispondere a questa domanda, basta osservare il grafico sottostante, in cui sono raffigurati sei episodi, ognuno della medesima durata, in cui la moneta statunitense ha visto modificarsi considerevolmente il suo valore. Nello specifico, le barre verdi rappresentano periodi in cui ha vissuto un apprezzamento e quelle rosse quelli in cui vi è stato un deprezzamento.
Fonte: LGIM su dati Bloomberg, aggiornati ad agosto 2024.
Se si osserva l’andamento degli EM in quegli archi temporali (rappresentato dalla linea blu), si capisce subito come l’andamento del dollaro abbia un impatto considerevole; nello specifico, quando il dollaro è forte, i mercati emergenti tendono a registrare crescite inferiori, mediamente il 3,4% contro il 5,7% che si osserva quando, al contrario, dollaro è debole. Inoltre, anche i tassi di cambio giocano un ruolo fondamentale, con i Paesi che hanno scelto un regime ancorato al dollaro che subiscono impatti due volte superiori rispetto alle controparti.
Questo ultimo punto mostra come siano le condizioni finanziarie il principale mezzo di trasmissione delle politiche monetarie, con i mercati emergenti che hanno vissuto una crescita del comparto del credito del 16% nei periodi in cui la Fed applicava politiche espansive, contro il 9% ottenuto quando la Fed entrava in modalità falco. Un dollaro forte rappresenta anche un ostacolo allo sviluppo della domanda interna agli EM, come dimostrato dal volume inferiore di consumi, di investimenti e dal fatto che, a parità di crescita statunitense, altre economie sviluppate sono cresciute un terzo più lentamente; un rallentamento che, a nostro avviso, si riscontra anche nella valutazione degli asset dei mercati emergenti.
Infatti, nei periodi di dollaro forte, le valute emergenti non perdono valore solo nei suoi confronti, ma anche nei confronti di un paniere di valute dei loro maggiori partner commerciali e a un tasso ben superiore a quello che richiederebbe l’inflazione, a dimostrazione del fatto che le monete
high yield sono particolarmente sensibili all’andamento del dollaro. Altri dati a supporto vengono dagli
spread creditizi dei titoli sovrani locali rispetto ai Treasury, contrattisi di 130 punti base in caso di dollaro debole e ampliatisi di 30
bps in fase di apprezzamento, e dal comparto azionario, cresciuto del 38% nel primo caso e appena dell’11% nel secondo.
Alla luce di tutto quanto riportato sopra, viene da chiedersi cosa comporterà il taglio dei tassi da parte della Fed, che ormai sembra dover accadere il prossimo 18 settembre, ma anche il fatto che questa dovrebbe ridurre i tassi più di tutte le altre Banche centrali nel corso del prossimo anno. Secondo noi di LGIM, la combinazione valutazioni elevate/taglio dei tassi andrà a contrarre il valore del dollaro, il che potrebbe rappresentare un punto di svolta per i mercati emergenti, che potrebbero invertire il trend negativo osservato negli ultimi 11 anni.
(Articolo a cura di
Erik Lueth, Global Emerging Market Economist di Legal & General Investment Management)