24 maggio 2022
Stagflazione, guerra e caro energia: recessione sempre più probabile, secondo un’analisi di LGIM
Lo shock della guerra in Ucraina ha fatto impennare i tassi d’interesse, con la politica monetaria che può ritrovarsi a operare sul confine sottilissimo tra crescita e inflazione
La ripresa dalla pandemia sta proseguendo a ritmo sostenuto in gran parte del mondo, grazie anche alla capacità di superare sempre più indenni ogni nuova ondata di Covid 19, che sta portando molte economie a riaprire i loro servizi. Tuttavia, l’elevato tasso d’inflazione e l’invasione russa dell’Ucraina stanno portando maggiore incertezza nei sistemi economici e minacciano la crescita. In particolare, la prima conseguenza negativa per la crescita dello scoppio del conflitto è stato l’aumento del prezzo dell’energia e soprattutto del gas; evento di cui l’Europa ha particolarmente risentito, sebbene le conseguenze siano avvertite in tutto il mondo, anche a causa del costo più elevato del petrolio.
È logico aspettarsi che l’impatto che avrà questa guerra si ripercuoterà ben oltre la sua conclusione, con la Russia che potrebbe rimanere isolata per anni, stravolgendo totalmente le catene di approvvigionamento, e con la deglobalizzazione, gli stimoli fiscali atti a mitigare lo shock energetico e l’aumento della spesa per la difesa che porteranno ulteriore pressione inflazionistica. Per il breve periodo, le sanzioni imposte alle Russia portano a rivedere le stime di crescita significativamente al ribasso, soprattutto perché potrebbero portare a un pessimo mix di picchi dei prezzi e stagflazione.
Rischio Recessione
Il Biege Book di aprile della Federal Reserve, ovvero il documento che raccoglie tutti i report dei 12 distretti di quest’ultima, conteneva ben 37 riferimenti alla questione ucraina, suggerendo che lo shock che questa ha provocato si è espanso ben al di fuori del comparto energy, andando a colpire molte altre commodity. Inoltre, i continui lockdown in Cina hanno estremizzato le problematiche che le supply chain stanno vivendo, con il Paese che si ostina a perseguire la sua politica “Zero Covid”, nonostante comporti dei costi sempre maggiori.
Ad oggi, le Banche Centrali si trovano di fronte al loro più annoso dilemma a partire dagli anni Settanta. Con gli Stati Uniti che si stavano avvicinando alle ultime fasi del ciclo economico ancora prima di questi ultimi shock, il primo obiettivo della Fed è quello di riportare i tassi d’interesse su posizioni neutrali; obiettivo che i mercati prezzeranno con i prossimi quattro meeting della Banca Centrale americana.
La crescita si è basata sull’aumento della domanda che era stata repressa dal Covid 19, da elevati redditi da lavoro, da grandi guadagni in termini di benessere e dagli elevati risparmi; tuttavia, questi fattori sono entrati in contrasto con le carenze sul lato dell’offerta, in un sistema economico che sta già operando alla sua massima capacità.
Per quanto riguarda l’inflazione, questa dovrebbe rimanere oltre i livelli di guardia per tutto il 2022, sebbene su valori minori rispetto ai picchi attuali. Poiché, secondo la nostra ricerca, gli Usa non sono particolarmente sensibili a tassi elevati, è sempre più probabile che la Fed dovrà assumere un atteggiamento da falco, in modo da raffreddare un mercato del lavoro particolarmente agitato e poiché la storia ci dice che in questi casi è difficile ottenere un “atterraggio morbido”, crediamo che le possibilità di una recessione nei prossimi due anni siano superiore a quelle che questa non si verifichi.
Uno sguardo alla curva dei rendimenti
Nel breve periodo, la situazione più drammatica è quella dell’Europa, dato che il rallentamento della crescita, una volta esauritosi l’effetto rimbalzo, sarà molto più brusco a causa della contrazione dei redditi reali. Le Banche Centrali si sentiranno obbligate ad aumentare i tassi d’interesse onde evitare nuove ripercussioni, nonostante gli effetti finali dubbi. In particolare, il rischio recessione di breve periodo è maggiore rispetto agli Usa, ma, rispetto a questi, non ci sarà bisogno di assumere atteggiamenti da falco per innalzare il tasso della disoccupazione per creare un po’ di margine, dato che le economie europee non sono in regime di pieno impiego come quella americana.
Guardando invece all’Asia, la Banca del Giappone sta mantenendo inalterata la curva dei rendimenti, nonostante una pressione inflazionistica crescente e uno spread che sta aumentando sempre di più portando al ribasso dello yen e, a nostro avviso, aumentando il rischio di dover abbandonare questa politica monetaria, portando allo sbando i mercati dei titoli sovrani locali e globale. I policymaker cinesi, invece, stanno cercando di bilanciare i sostegni economici con l’aumento della pressione inflazionistica e l’azzardo morale di salvare un settore immobiliare fortemente indebitato. Questo compito è stato reso ancora più difficile dalla risalita dei contagi e dai lockdown che ne sono conseguiti. Ecco perché riteniamo che la crescita della Cina sia sempre più a rischio.
A causa di questo quadro macroeconomico alquanto complicato, la nostra posizione verso i mercati azionari e del credito è diventata sempre più prudente. Detto ciò, bisogna anche considerare che le valutazioni hanno comunque iniziato ad aggiustarsi, con la storia che ci insegna che le ultime fasi di un ciclo economico sono sempre un buon periodo per i rendimenti azionari; pertanto, preferiamo comunque le azioni rispetto al credito.
(Articolo a cura di Tim Drayson, Head of Economics di Legal & General Investment Management)