27 maggio 2025

Ecco perché i dazi sono un pericolo per l'inflazione più grande di quanto si creda

James Carrick, Global Economist di L&G, spiega l'effetto moltiplicatore dei dazi sul prezzo dei beni e di come ciò può portare l'inflazione a crescere molto più del previsto negli Stati Uniti

In un momento in cui nessuno sa dove si stabilizzeranno i dazi che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, vuole imporre, noi di L&G riteniamo di essere di fronte a uno scenario in cui si potrebbe replicare quanto osservato durante l'ultima crisi energetica: le imprese che stabiliscono nuovi prezzi come moltiplicatori dei costi sostenuti, amplificando l'effetto dazi e innescando una crescita dell'inflazione di gran lunga superiore alle aspettative.

Questa dinamica è particolarmente evidente negli Stati Uniti, se si osserva l'andamento dei prezzi di determinati beni di consumo, distinguendo tra quelli venduti da brand famosi e quelli con il marchio del supermercato. Eppure, un aumento del prezzo può essere dovuto a maggiori costi legati alla logistica, all'energia o, nel nostro caso, alle materie prime; tutti elementi che non vanno a influire sulle spese di marketing. In altre parole, con un aumento comune dei costi, il rapporto tra prodotti "di marca" e "non di marca" avrebbe dovuto rimanere invariato, invece è cresciuto.

La ragione dietro a questo fenomeno, in realtà, è piuttosto semplice: i grandi marchi hanno aumentato i prezzi dei loro prodotti (in risposta ai dazi), in modo tale da mantenere non il valore monetario del markup applicato, ma il valore percentuale.

Per capire cosa si intende, si prenda ad esempio il classico chioschetto della limonata. Immaginiamo che un bicchiere di limonata costi 1,50 dollari, ma che il costo di limoni, zucchero, acqua e bicchieri di carta sia di un dollaro. Il markup sarà di 0,50 dollari, ovvero il 50%. Supponiamo ora che quest'anno il raccolto non sia stato buono e che i limoni siano diventati più rari sul mercato, tanto che ora il costo per produrre un bicchiere di limonata passa da 1 a 2 dollari. Tuttavia, il costo del lavoro del produttore non è aumentato e quindi il markup si dovrebbe mantenere sui 50 centesimi. Pertanto, il prezzo totale sarà (in teoria) di 2,50 dollari.

Tuttavia, un secondo modo di vedere le cose è quello di fare in modo che il markup non rimanga di 50 centesimi, ma rimanga del 50% del prezzo. Infatti, un costo maggiore della materia prima significa che anche accumulare scorte è più dispendioso e se quelle scorte dovessero deperire prima di essere vendute, le perdite sarebbero maggiori. Mantenere invariata la percentuale (e non il valore assoluto) del markup permette di scongiurare questi rischi crescenti, ma comporta anche che, a fronte di costi pari a 2 dollari, il prezzo della limonata salirà a 3 dollari. Ciò spiega come la percentuale di rincaro possa ampliare la portata di uno shock dei prezzi.

Ma cosa succede se si trasla questo esempio molto scolastico nel mondo reale? Innanzitutto, un recente paper del fondatore di Pricestats, il professor Alberto Cavallo, condotto su dati relativi a costi, prezzi all'ingrosso e al dettaglio di 1.900 prodotti, 13 marchi, sette categorie e quattro Paesi tra il 2018 e il 2023, ha rilevato percentuali stabili di ricarichi totali (prezzi al dettaglio su costi di produzione). Ciò significa che l'ipotesi secondo la quale le aziende mantengono invariato il markup in termini percentuali e non monetari è da considerarsi attendibile.

Visto che è un esempio che è effettivamente circolato negli ultimi tempi, si prenda in considerazione un paio di Nike, il cui costo medio sul mercato è di 76 dollari. Di questi, solo 22 dollari (circa il 30%) sono i costi di produzione. Supponiamo ora che queste scarpe siano importate; sul loro prezzo sarà caricata anche una tariffa del 10%, secondo le leggi oggi in vigore. Ciò significa che il prezzo dovrebbe aumentare di 2,20 dollari. Tuttavia, per mantenere stabile la percentuale del markup, i prezzi durante i mesi della crisi energetica aumentarono di 7,60 dollari.

Inoltre, è importante considerare che tra la produzione e la vendita del prodotto finito c'è una catena di agenti di mercato, ognuno dei quali applicherà il suo markup in termini di percentuale. Sempre Cavallo ha stimato che i rivenditori applicano una maggiorazione del 35%, per cui a 100 dollari di dazi corrispondono 135 dollari di aumento effettivo del prezzo. Tuttavia, prima del rivenditore retail c'è il fornitore di materie prime, che applica un rincaro medio del 220% (a fronte di 100 dollari di dazi, il prezzo cresce di 220). Sommando tutti gli aumenti, si ottiene che una tariffa traducibile in costi aggiuntivi di 100 dollari, genera un aumento del prezzo complessivo di 300 dollari.

In generale, noi di L&G stimiamo un moltiplicatore pari a 1,5 volte il costo tariffario, tenendo conto della suddivisione tra beni finiti, intermedi e strumentali.

In realtà, ci sono molte osservazioni che potrebbero essere fatte verso questa analisi, la quale appare effettivamente troppo pessimistica: quello dei beni di consumo è un settore in cui le imprese hanno una forte capacità di determinare il prezzo di ciò che vendono, ma altrove non è così. Inoltre, il periodo preso in esame per estrapolare i dati presentati è molto particolare, dato che la politica monetaria e fiscale in quegli anni era molto accomodante, a seguito non solo della crisi energetica, ma anche della pandemia di Covid 19. Infine, le aziende estere potrebbero ridurre i prezzi a seguito dello shock sulla domanda dovuto ai dazi e smorzarne l'effetto, mentre le multinazionali potrebbero distribuire il peso di questi aumenti tra le varie nazioni in cui operano.

Tuttavia, ciò significa solamente che i rincari potrebbero non essere così alti, ma non che non ci saranno. A dimostrazione di ciò, le imprese statunitensi attive nei settori interessati dai dazi stanno già aumentando i prezzi dei loro beni, parallelamente a quelli importati. Per questo è importante monitorare in primis le decisioni delle aziende, ma anche e soprattutto le decisioni della Federal Reserve. Infatti, se la Banca centrale americana decidesse di attuare politiche monetarie e fiscali meno restrittive, a fronte di un quadro economico particolarmente preoccupante, le imprese avrebbero ancora più potere nel determinare il prezzo di vendita dei loro prodotti.
(Articolo a cura di James Carrick, Global Economist di L&G)